"LA VISITA ALL'ARCHIVIO"

Galleria Il Portico via dei Gombruti 12/a Bologna. Dal 7 Maggio 1977, mostra personale di opere di Giuseppe Botturi

La visita all'archivio. Di Gino Baratta
Interrogare un pittore sul suo passato nasconde sempre qualche sorpresa. C'è chi non risponde irritato, chi nega provocatoriamente di avere dei padri, chi vanta di non aver compagni di strada, chi invece ti stordisce con mille notizie nell'intento di spaesare le tue attese di interrogante. Ho chiesto a Botturi di interrogarsi sul passato nella speranza di procurarmi dei segnali che mi aiutassero a decifrare il suo itinerario. Ecco le indicazioni: l'Accademia a Venezia in anni impegnati e discretamente furibondi. Il nostro ne parla quasi malvolentieri; capisco che li ha vissuti con distrazione deliberata. Nel ricordo sono esperienze di sconcerto; nel fondo, esperienze di solitudine. Affiora il nome di Saetti; mi chiedo che peso abbia avuto e decido che il segno di Botturi non mi restituisce alcuna traccia di finto affresco, di sinopie anche semplicemente alluse. Gli altri maestri (Viani ecc..) erano nelle aule accanto, cioè molto lontano, quasi estranei. Poi, dopo Venezia, si scava un vuoto perplesso. Botturi cerca di occuparlo con date, anni, mesi in un rimescolio di elementi cronologici ed esperenziali che non hanno ordine. C'è alla base una timidezza, un pudore che induce a sfasare, ad intersecare a sovrapporre segni, grafie, tecniche diverse. Il discorso mi induce di continuo a guardare il quadro, i quadri che non sono firmati, né in qualche modo siglati. Sono lì, appesi alle pareti e provocano un effetto sconcertante. Un grande disegno che rimanda ad una grassa modella; accanto, un piano - spazio di lavoro, un tempo - recuperato con le modalità tecniche del collage, del ritaglio, della contiguità di pellicole differenti; ancora, un crocifisso: fa suonare un campanello d'allarme. Più tardi scoprirò una maschera, un poco gualcita, un poco offesa, che mi riporta al crocifisso; più tardi ancora, un disegno che contorna appena la memoria del relitto, schegge di immagine. Indubbiamente remore, pentimenti religiosi stanno dentro il museo di Botturi. Ma è giusto parlare di pentimenti? Perché non di modalità del suo intrinseco comprendere? Sulle pareti (che funzionano da archivio, non da inventario rigoroso) altri temi: un gusto spettacolare che mette in scena l'impertinenza erotica, che costruisce l'apparato in cui si srealizza la penetrazione finta. Un grande segno pronto a ferire, ad attraversare, ma senza alcun tratto gioioso, ludico. Ecco, allora, che i due poli, quello religioso e quello erotico si combinano, o, almeno, io ne percepisco la complementarità dolente. C'è al fondo dell'operazione di Botturi una peculiarità esistenziale invano rimossa, camuffata. Altre esperienze ancora: un colore che in altri anni (ma quando?) colava sulla tela, veniva scagliato sulla superficie in attesa d'immobilità. Il resoconto della visita all'archivio potrebbe continuare; ormai, però, il problema è circoscritto. Botturi in questi anni ha avuto un assillo: quello di catalogare tecniche, di inventariare segni. L'urgenza di istituire le distinzioni entro un pullulante, emergente universo di segni che rischiavano di soffocarlo. Il problema di emarginare le voci plurime, di catturare il superfluo, l'eccedente per dar forma ai segni mediante una declinazione che accomunasse quelli della stessa serie e fuorchiudesse quelli renitenti, appartenenti ad altre serie. Così si arriva all'oggi, all'esibizione di questi quadri. Esperienze caratterizzate da alcuni segni: pochi, elementari; segni come l quadrato sospeso, quasi mobile, come la griglia suggerita, tentata e ritentata fino ad indicare una serie; una griglia che, rispetto alla restante superficie della tela, gioca un ruolo fortemente illativo. Il quadro è a-narrativo; è vero, esibisce se stesso, squaderna il procedimento. È una conquista ottenuta per forza di levare; un'elementarità che non è dono ricevuto, ma risultato mediante il fissaggio di elementi essenziali, rispondenti ad una economia sottile e controllata dalla mente. La storia di Botturi - la storia che conta - coincide con questo processo di riduzione, che è anche processo di approfondimento. Egli mantiene in atto una scommessa: vivere di poco, parlare nella e con la continenza dei segni; scommessa di poter vivere di ciò che si produce. È la parabola dell'uovo, che Botturi mi raccontava non molto distratto né divertito: e se ciascun uomo facesse quotidianamente un dono a sé? Un dono per gli altri o di cui nutrirsi.Giuseppe Botturi è nato a Cavriana nel 1947. Si è diplomato all'Accademia di Belle Arti di Venezia nel corso di pittura di Bruno Saetti. Vive e lavora a Volta Mantovana.